La libertà è il diritto dell'anima di respirare."Will Hunting, Genio Ribelle"

L'Aquila e la bambina - racconto breve



La nostra storia.
Ero tornato da te per capire. Ero tornato da te perché credevo dovessi farmi perdonare. Ti avevo accettato perché credevo stavolta di far la scelta giusta, ad ogni passo, pur non sapendo esattamente perché le cose fossero andate male quella volta, avevo solo una sensazione, la sensazione di annullamento di me stesso, un giorno ad un certo punto io avevo smesso di esserci e poi… era finito tutto, io prima di te. IO prima di te…
Io e la mia convinzione di essere sempre colpevole… io la mia convinzione di non saper esprimere, di non riuscir ad essere. Ma non è vero niente. Tutto questo sei TU. Sei tu ad impedirmi di vivere. Era lo strascico di te ad impedirmi di essere me stesso.
Ed anche questa volta tu… hai ripetuto i tuoi errori. Credi sempre che per amarmi basti togliermi le forze, togliermi la MIA forza… ridurmi il respiro, alimentarmi poco, sottrarmi la luce, così da farmi sentir debole senza di te, senza quel poco che mi dai… incapace di vivere senza di te, ed in colpa per causare la tua crudeltà.

Questa è la storia di un’Aquila. Un’aquila che era fuggita dal suo regno, perché credeva di non farne parte, di essere diversa dai suoi simili, così iniziò la sua ricerca, la ricerca di qualcosa che non sapeva… ma che ci doveva pur essere, da qualche parte.
Planare nel cielo, sentir il vento scorrere addosso, respirare… fulminare una preda, piombarle addosso ancor prima che lei abbia la percezione del mio arrivo, agguantarla, provare un piccolo rimorso per quella ferocia, ma… era solo per sopravvivenza, non per crudeltà. Tornare in alto… volare… ancora, non stancarmi mai delle mie ali.
E poi trovar un albero, appoggiarsi sopra, guardare…

Una casa. Una bambina, di forse 10 o 11 anni correva fuori, tra erba e terra con un aquilone tra le mani. Umani… che curiosi esseri.
Un oggetto per imitare un volo. Un oggetto per tentare di domare il vento.
Guardarla… lei mi notò, e si bloccò immediatamente. Ammirazione o paura.
Tranquillità… non potrebbe mai raggiungermi, è innocua, si voltò verso la casa e disse qualcosa. D’un tratto un uomo con un fucile mi puntò e scappai.
Un trofeo… umani.

Non avevo più una casa, da tempo avevo abbandonato la mia famiglia ed avevo rifiutato di farmene una mia, sebbene fossi già pronto per farlo, ma il mio spirito… no, lui rifiutava qualsiasi vincolo, persino l’appartenenza alla mia specie, la mia stessa condizione fisica.

Di sera, il tramonto tra le montagne, ed io appollaiato sul mondo, il sole accecare l’aria ed arrossare la neve… uno spettacolo che i miei “simili” non avrebbero mai guardato con i miei stessi occhi. Troppo umano, forse… troppo umano per essere solo un animale.

Tornai il giorno dopo, lei questa volta stava curando le piante insieme alla madre, con tocchi delicati accarezzava le foglie e parlava… Non si accorse neanche di me.
Tornai ancora, non so neanche per quanto tempo, per anni… preso da una curiosità irrefrenabile per quegli esseri. Vidi crescere quella bambina, diventare donna. Iniziai col tempo ad avvicinarmi sempre di più a quella casa, aspettando che lei mi notasse ancora… non riuscendo a capire perché desiderassi tanto quello sguardo… so solo che ero affascinato dalla sua delicatezza misteriosa. Non giocava più con l’aquilone, ma parlava ancora alle piante… lei e i suoi lunghi capelli mossi.

Un giorno, nell’incoscienza della mia giovane età, mi adagiai su di un tronco spezzato proprio davanti al portico di casa. Mi vide dalla finestra, vide il momento in cui con le mie grandi ali mi abbandonavo sulla terra. Aspettai… lei uscì lentamente, aveva un vestitino rosso, leggero che si lasciava prendere dal vento, capelli scuri lunghi nell’aria, e due occhi scuri e profondi quanto i miei. Titubante si fermò a qualche passo e tese la mano verso di me, mi aveva riconosciuto?
Da quanto tempo aspettavo quel momento, il momento in cui avrebbe accarezzato anche me, come faceva con le sue piante…
D’istinto mi alzai in volo verso di lei, le mie ali si mossero da sole, quasi ipnotizzate…
Lei mi sorrideva dicendomi con gli occhi – vieni da me.
Stavo andando, inesorabilmente, verso la sua mano, quando…

- Christine… cosa fai? E’ pericoloso!, esclamò l’uomo affacciandosi alla porta. Mi spaventai, e nel momento in cui stavo già toccando la sua mano, virai bruscamente graffiando la sua carne con i miei artigli. Col suo sangue su di me spiccai il volo… senza neanche voltarmi.

Perdonami... non volevo. Io non volevo farti del male. Ho solo avuto paura.

E se mi uccidessero, o peggio, se mi catturassero. Posso fidarmi degli umani? Quanti miei compagni avevo visto morire per mano loro…

Tornai alla mia distanza, a guardarla da lontano, dal mio albero. Lei aveva capito che ero lì, e sebbene non si voltasse, la sentivo… sentivo i suoi pensieri su di me. Portò la mano fasciata per molto tempo, e non me lo perdonavo. Dovevo dimostrarle che ero buono, che non doveva temermi, che non desideravo altro che le sue attenzioni.

Scesi dalla mia lontanza un giorno di primavera, mi appoggiai di nuovo di fronte al portico, ma in casa sembrava non esserci nessuno. Aspettai…
All’improvviso sentii un’aria minacciosa intorno, sentii un pericolo imminente. Mi alzai in volo, ma delle mani mi afferrarono:
- Vuoi farmi di nuovo male…? Stai fermo…, disse con un sibilo di voce.

Era lei! Calmai la mia agitazione e bloccai le mie ali.

- Sei bellissimo, non posso crederci… un’aquila fra le mie mani!, disse. Il suo sorriso, avrei voluto sorridere anch’io così… le sue mani, il contatto con lei, sentire un calore così presente… no, i miei simili non avevano niente a che fare con tutto questo. Le sue dita incerte scivolavano tra le mie piume, ed io restavo immobile, per non farla spaventare, perché lei non temesse una mia minima reazione violenta.

L’uomo non era in casa, ed io restai con lei fino a sera. Ascoltai i suoi discorsi alle piante, le feci compagnia durante le sue faccende. Poi, ad un certo punto andai via, non appena lo sentii arrivare.
Furono mesi stupendi, imparai a non aver più paura di lei quando all’improvviso mi prendeva alle spalle, e lei non temette più i miei artigli. Iniziammo a fidarci l’uno dell’altra. Lei mi dava persino da mangiare, e presto smisi di cacciare, non mi serviva più. Guardarla era per me molto più della mia libertà, sentirla era diventata la mia vita, guardavo le cose attraverso i suoi occhi… e mi sentivo io, non più un semplice animale.
- Non andrai mai via, vero?, mi chiedeva ogni tanto. – Tornerai ogni giorno, vero?, non potevo risponderle, il mio linguaggio era diverso dal suo, però io la capivo, capivo il suo modo di esprimersi… e non avevo altro modo per rispondere se non la mia presenza, costantemente accanto a lei.

Finchè un giorno…
non mi portò in un posto strano. Era un po’ lontano dalla casa che conoscevo, era una specie di capanna. Entrammo ed io, neanche in quel caso opposi resistenza, lei non mi parlava e mi sembrava strano… la sentivo, sì, ancora la sentivo. Sentivo il suo cuore battere, il suo respiro sul mio dorso, mi stringeva, un po’ più del solito. C’erano tanti attrezzi, pezzi di legno, roba dismessa.
- Lo so, so che presto vorrai andartene, sei un’aquila già matura… troverai qualcuna come te ed allora mi abbandonerai, disse stringendomi ancora di più.
Percepii di nuovo quel pericolo. Lo stesso che sentivo ogni volta che mi afferrava, lo stesso che ogni volta io ignoravo. Ma anche se avessi voluto, non sarei potuto uscire da lì… non c’era via d’uscita, ed infrangere quelle due finestre che c’erano avrebbe significato suicidarmi.
Non potevo evitare di stare lì.
Prese una gabbia. Mi guardò un attimo negli occhi, no… non poteva farlo… ma perché? Perché… se ero sempre con lei, se per lei, per incontrarla avevo rinunciato al mio regno… a ciò che mi apparteneva, alla mia indole da predatore. Ero diventato un animale domestico… per Lei.
Mi infilò nella mia prigione. Chiuse la porticina e mi lasciò lì tutta la notte, al buio.
Perché… come potrei abbandonarti… come potrei andarmene… parlarle, no, non possiedo le tue parole… piangere, no… non potevo fare neanche questo, perché non ero umano.

La mattina seguente venne, la fissai, implorandola con gli occhi di liberarmi… di farmi volare un po’, solo un po’… Mi portò fuori, raggiungemmo la casa e mi appese al portico, continuai a guardarla, e neanche allora mi disse una parola… Quanti giorni stetti in quella condizione, schernito da altri umani che mi tormentavano ogni volta che mi vedevano. Un’aquila in una gabbia. Mi sentivo sempre più debole e guardavo il cielo… il mio cielo. Iniziò a lasciarmi anche la notte lì, ed io lo preferivo, almeno le stelle mi facevano compagnia.
Ogni tanto infilava la mano nella mia gabbia e mi accarezzava, diceva – bravo… continua a far il bravo…, se solo avessi voluto gliel’avrei tranciata quella mano, e sarei volato via per sempre, ma non potevo… mi sarei sentito un assassino. Raramente mi dava da mangiare, ed io non sempre lo accettavo. Volevo il mio cielo… solo il mio cielo.
Un giorno aprì la gabbia, mi legò con una corda stretta alla zampa, a tal punto che iniziai a sanguinare, e mi disse di volare… Volare? In quelle condizioni? Legato a lei da una corda? Volare dopo giorni di poca alimentazione, di immobilità… io…che ero uno dei predatori più pericolosi ero diventato un pennuto comune. Un volatile qualunque… lei mi voleva così, per star tranquilla… ed ora pretendeva pure che volassi, che le mostrassi la mia magnificenza, per cosa? Per l’orgoglio di poter dire a se stessa che possedeva un’aquila... No… mi rifiutai di volare e rimasi adagiato ai suoi piedi. Improvvisamente mi accorsi che su quello che era il mio albero c’erano due aquile… riconobbi subito chi fossero, erano loro… proprio loro, e vedere la loro forza, l’aria con cui dominavano tutto intorno, mi fece provare rifiuto e vergogna per la mia debolezza.

Guardai lei… e la vidi. Finalmente.

Se avessi fatto un cenno, loro si sarebbero lanciate giù e l’avrebbero uccisa pur di liberarmi, ma ero io stesso che dovevo farlo. Io dovevo liberare me stesso. Anche lei si accorse della loro presenza e presa dal panico, mi chiuse in un sacco e mi lanciò in fondo al pozzo… stavo morendo… e forse in una parte di me lo desideravo sul serio… poi andò a chiamare qualcuno, quel qualcuno mi tirò su e con quel gesto mi salvò la vita… ma appena aprì il sacco mi puntò il fucile, a quel punto le mie due compagne piombarono giù per distrarlo ed io riuscii ad uscire dal sacco.
Loro erano lì, al mio fianco, nonostante io non ci fossi mai stato per loro…
Lei cercò di afferrarmi ancora, ed io per la mia debolezza non mi reggevo sulle ali, strappò il fucile all’uomo ed iniziò a spararci, a sparare a caso…
Ci avrebbe colpite… tutte… così, mi feci coraggio, raccolsi dentro di me le ultime energie rimaste e l’attaccai, mi lanciai sulla sua mano ed affondai gli artigli.. il suo sangue, ancora su di me, mischiato al mio.. le sue urla rimbombarono nel vuoto.

Spiccai il volo lontano dal mio tormento, senza voltarmi, affiancato dalle mie due compagne che sorreggevano il mio volo incerto.
Respirare di nuovo, dopo aver vissuto nell’angoscia di qualcosa che era solo nella tua mente, e nella mia convinzione di essere qualcosa che non sono.

Come può una bambina capire cosa vuol dire volare… un essere umano che considerava un’aquila un semplice pennuto da tenere in gabbia e da mostrare agli altri… mostrare la sua conquista, mostrare il suo trofeo che stava morendo, e che poi avrebbe imbalsamato con cura.

Tornare nel mio regno, sulla mia montagna, nel mio cielo… lì dove c’è chi non avrà il tuo bel linguaggio, ma ha la percezione di ciò che sono veramente, semplicemente perché è come me.

Le ferite passeranno, il sangue si asciugherà, i miei occhi attraverseranno il tempo, ma non torneranno più da te, ora che so chi sono… ora che ti vedo.

Credo che tu non potrai mai capire tutto questo: una donna non potrà mai amare un’aquila, né un’aquila perdere le sue ali e dimenticare il suo cielo.

Addio.


0 commenti: